The monster study

Era la terza volta che Mary Tudor si fermava davanti a quella caffetteria. Faceva freddo e la gente che le passava accanto si stringeva nel cappotto, ma lei sembrava non accorgersene. Se ne stava lì, immobile, incapace di entrare, incapace quasi di respirare. Forse qualcuno l’aveva notata al di là del vetro, la ragazza no. Non sollevava mai lo sguardo dai menù, nemmeno per guardare i clienti da cui prendeva le ordinazioni.
Non era stato difficile per Mary trovarla. Al tempo era il caso numero 7, ma il suo vero nome era Betty Romp. Era bastato uno sguardo per riconoscerla. Fragile e insicura, tutta pelle e ossa, quando parlava con i clienti arrossiva, camminava a testa bassa, con le spalle ricurve. Però era ancora bella, lo era sempre stata, sin da bambina. Era timida, ma loro l’avevano convinta che fosse qualcos’altro. Dopo non parlava più, evitava il loro sguardo indagatore, si copriva il viso con le mani per cercare di difendersi in qualche modo, inutilmente, perché ormai il danno era stato fatto.
A distanza di anni, Mary era sempre più convinta che, in realtà, stesse urlando in silenzio. Ma allora non capiva, era giovane e ingenua. Giovane e ambiziosa. Si era sentita così fiera quando il dottore aveva fatto il suo nome tra quello di tutti gli altri studenti. Ora avrebbe voluto che quella scelta fosse ricaduta su qualcun altro.
L’avevano chiamata mostro paragonando il loro esperimento con ciò che i nazisti avevano fatto ad Auschwitz e, in cuor suo, sapeva che avevano ragione. Quei bambini si erano fidati di lei e lei li aveva traditi. E per cosa poi? Lo scopo era nobile, erano convinti di essere nel giusto, che alcuni sacrifici fossero necessari per ottenere un bene più grande, una cura, ma c’era un limite e loro l’avevano superato.
Si fidava del dottor Johnson, si fidava ciecamente. Nell’abito della psicologia era considerato un dio e Mary lo venerava come tale. Dopo la vicenda, lui l’aveva allontanata, l’aveva buttata via come spazzatura. Si vergognava di lei, si vergognava dell’esperimento e di ciò che avevano fatto a quei bambini la cui unica colpa era quella di non avere nessuno a cui importasse di loro. Erano solo degli orfani, chi avrebbe dovuto amarli li aveva abbandonati e chi aveva promesso di aiutarli li aveva ingannati.
Il dottore le aveva fatto promettere che non ne avrebbero parlato mai più, non dovevano farne parola con anima viva, ma questo non avrebbe cancellato quello che era successo, c’erano state delle conseguenze. Alcune irreparabili.
Forse, però, non era troppo tardi. Mary voleva rimediare, o almeno provarci. Per questo motivo era andata alla caffetteria, anche se non aveva trovato il coraggio di entrare.
Nei giorni precedenti, si era immaginata spesso la scena. Si sarebbe seduta aspettando che Betty venisse a prendere l’ordinazione, la ragazza l’avrebbe riconosciuta, si sarebbero guardate negli occhi per un istante che sarebbe sembrato infinito, poi Mary le avrebbe chiesto scusa, le avrebbe detto che non capivano quello che stavano facendo, che avevano sbagliato e che non avevano mai avuto cattive intenzioni. Che non era troppo tardi, poteva ancora aiutarla, se gliel’avesse permesso. Sarebbe tornato tutto come prima, prima dei test a Iowa City, prima del dottor Johnson, prima dell’esperimento. Betty avrebbe annuito, perdonandola in silenzio. Forse si sarebbero addirittura abbracciate, come Mary avrebbe dovuto fare tanto tempo prima. E non avrebbe dovuto abbracciare solo Betty, ma anche Norma Jean, Hazel Potter, Clarence Fifer, Mary Korlaske e tutti gli altri di cui aveva dimenticato il nome. Forse non l’aveva mai saputo. Per loro erano solo casi, solo numeri.
Davanti alla caffetteria, Mary era sempre più convinta che non sarebbe andata così. Il perdono che desiderava non sarebbe mai arrivato. Betty avrebbe evitato il suo sguardo coprendosi il viso come quand’era una bambina. Gli altri clienti l’avrebbero fissata, dapprima stupiti, poi con disapprovazione.
È lei! Il mostro! La nazista! Ha aiutato quel dottore a compiere un esperimento su delle creature innocenti…
Anche Betty l’avrebbe fissata senza dire nulla. Uno sguardo ferito e, al tempo stesso, colmo d’odio. Lo stesso sguardo che Mary vedeva sempre più spesso. Ogni volta che si guardava allo specchio.



Nel 1939 a Davenport, Stati Uniti, Wendell Johnson, famoso psicologo specialista in patologie del linguaggio, e la sua assistente, la studentessa Mary Tudor condussero un esperimento sulla balbuzie su ventidue bambini orfani. I soggetti vennero divisi in due gruppi, quelli del primo gruppo venivano lodati, mentre quelli del loro gruppo criticati aspramente per ogni imperfezione o incertezza del linguaggio. Molti bambini del secondo gruppo soffrirono di problemi psicologici per il resto della loro vita.

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